La vita agra, ovvero la disillusione della metropoli

La vita agra di Luciano Bianciardi è un capolavoro della letteratura italiana che andrebbe scoperto o riscoperto, ma non è questo il solo motivo per cui lo si è scelto a far parte di questa rubrica. Il romanzo di Bianciardi, pubblicato nel 1962, proprio all’inizio, quindi, di quel grande periodo di cambiamento sociale ed economico conosciuto col nome di boom economico, racconta la difficile integrazione del protagonista trasferitosi a Milano.

Il difficile inserimento degli immigrati nelle città del nord durante quegli anni ci è stato raccontato dal cinema (un esempio su tutti Rocco e i suoi fratelli di Visconti), ma anche dalla musica: si ricordi La donna del sud di Bruno Lauzi, o la meno idilliaca ballata di Sergio Endrigo Il treno che viene da sud. Ma il protagonista de La vita agra non è un operaio venuto a cercar lavoro scappando dalla miseria: il suo trasferimento a Milano è dettato dal desiderio di compiere una missione terroristica per vendicare i compagni minatori morti nell’incidente di Ribolla (1954). Nel corso delle pagine vediamo il protagonista costretto ad abituarsi, a fondersi con una città non sua, a mescolarsi a una folla anonima di gente alienata, a piegarsi ai capricci di un mondo editoriale che scatena le pagine di satira più feroci del libro.

A questo punto avrete forse capito perché questo libro che racconta “l’inumanità, o alienazione, cui è ridotta la folla della metropoli […] la pena per il mondo aziendale, ove la gente appare sottoposta a un processo di disidratazione spirituale” fa parte, secondo me, delle letture obbligatorie per imparare a difendersi da Parigi. E – si faccia bene attenzione – proprio perché la narrazione di Bianciardi non riguarda un operaio o un bracciante che si trova a vivere nelle Coree, ma un “intellettuale” impegnato che si scontra con la difficoltà a mantenere fede al suo credo è tanto più attuale al giorno d’oggi.

E, a un occhio attento, non saranno solo le pagine memorabili del viaggio in tram, o della descrizione delle mille idiosincrasie-da-ufficio che negli anni ’60 si iniziavano a intravedere e che oggi fioriscono rigogliose, concimate dal mito del produttivismo (“Travailler plus pour gagner plus” è slogan di questi anni) a richiamarvi sinistri paralleli con il qui e l’ora. Probabilmente a suonarvi tristemente familiare sarà la storia stessa: la triste parabola dell’anarchico individualista che arriva nella grande città e lentamente ne viene inglobato e cede alle sue frivolezze. La rivoluzione? Restasse il tempo per pensarci, ma si deve lavorare. E allora su e giù per le scale di case editrici ciniche che vendono merda spacciandola per letteratura, traslochi in appartamenti sempre più piccoli, sempre più in periferia. I compagni? I soli che restano sono “pittori capelluti” e “fotografi affamati” (Milano ’62 o Parigi 2013?), ma in città non si vedono i veri soggetti della rivoluzione perché loro, in città, non ci possono vivere. Non se lo possono permettere.

Le categorie cambiano, i ritmi del miracolo economico anche, ma la seduzione della metropoli vetrina resta la stessa e prima o poi quasi tutti finiamo per cedere. Un racconto amaro, devastante, da leggere col cuore e con la pancia. Prima di tornare a farsi inghiottire dalla metropoli, passando con sguardo vuoto accanto alla miseria quotidiana di chi non ce l’ha fatta senza batter ciglio.

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CHI SIAMO

Dal 2013, Italiani a Parigi.

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