Acido Solforico, Amélie Nothomb

acido solforicoNota: Questa recensione risale ad alcuni mesi fa. Mi permetto di riproporla su questo sito perché l’autrice, Amélie Nothomb è di quelle che non si possono evitare sugli scaffali delle librerie a Parigi. Dopo Acido solforico ho letto altri romanzi della scrittrice belga, che hanno leggermente mitigato la cattiva impressione iniziale. Ciononostante molte delle critiche mosse a questo primo romanzo letto valgono anche per altre opere della stessa autrice.

Acido Solforico è un libro è banale e disonesto, oltre che mal scritto. Ho letto con stupore che ha suscitato scandalo e dibattito, oltre a lodi e accuse di “strumentalizzazione del genocidio” (sic). Fino a questo libro non conoscevo l’autrice, per cui non so a cosa imputare tale risonanza. Il libro non mi sembra che la meriti. Innanzi tutto si tratta di un libro banale: l’idea di partenza (un reality show nel quale si ricreano le condizioni di un campo di concentramento, ivi compresa l’esecuzione dei prigionieri) non la definirei certo originale. La riproduzione di una finta situazione carceraria è un classico della sociologia e della psicologia, si pensi solo al celeberrimo esperimento di Standford (raccontato, tra l’altro, nel film tedesco “The Experiment”, relativamente recente) e la critica del voyerismo televisivo (per quanto sia oltremodo legittima) non è un argomento nuovo.

1) Il racconto manca completamente di contestualizzazione. L’ambientazione è indefinita: potrebbe essere un futuro, non si sa se prossimo o remoto, che assomiglia molto ai nostri giorni. Tale vaghezza fa sorgere nel lettore il sospetto che l’autrice non fosse sufficientemente preparata per scrivere un racconto ambientato in nessuna epoca, neppure la propria, e abbia scelto un fanta-futuro che ha il vantaggio di non richiedere alcuna ricerca documentaria. La critica della società è semplificatoria, banale e già sentita (i veri cattivi sono gli indifferenti che lasciano che questo scempio si verifichi sotto i loro occhi: a questi indifferenti appartiene TUTTO il genere umano, eccetto la protagonista), oltre che spiattellata pedissequamente dalla brava eroina di turno. Come se avesse paura che i lettori non ci arrivino da soli, la Nothomb non si accontenta di raccontare una storia, lasciando al lettore la decifrazione della sua posizione: allo stesso tempo scrive la storia e la spiega, mostrando il timore di non essere abbastanza chiara o (ancora peggio) una scarsa fiducia nei propri lettori.

Dal punto di vista dell’intreccio puro e semplice è evidente che non funziona. Si può accettare di essere subito scaraventati nel mezzo dell’azione, si può accettare che poi la tensione stagni per tutte le pagine successive… Ma il lieto fine è insopportabile. Oltre ad essere ridicolo nella sua pomposità (scusate, ma la firma del contratto con il ministro della Difesa?) è stucchevole e lascia l’impressione che l’autrice fosse in ritardo con la consegna e dovesse finire a tutti i costi. I personaggi sono stereotipati, perfino nei nomi (“parlanti”, come quelli della mitologia o dei racconti per l’infanzia): la buona (e bella, ovviamente) la cattiva-stupida (ovviamente brutta), il cavaliere senza macchia… Probabilmente, però la cosa peggiore sono i dialoghi. Questi mescolano uno stile sentenziale da testo sacro al peggiore slang da paraletteratura poliziesca: Esempio: “Perdi il tuo tempo. Anche se l’inferno esiste, me ne frego di andarci ad arrostire” “L’inferno esiste, e noi ci siamo già” “A me questo inferno piace”.

Detto questo lo stile della Nothomb si vuole sferzante e diretto, con alcune aperture al lirismo. Purtroppo se la scarsità del vocabolario la porta a perdere la possibilità di una qualche poeticità, lo scarso realismo la distanzia dal parlato, per chiuderla in una lingua libresca che non assomiglia al linguaggio comune, né è sufficientemente evocativa per essere poetica.

Infine (e l’ho lasciato per ultimo perché è il difetto peggiore di questo libro), si tratta di un’opera cinica e insincera. Il grande bersaglio critico del libro, infatti, è il pubblico del reality in questione “Concentramento”, specie coloro che, pur facendo gli “indignati” non si perdono una puntata dell’osceno spettacolo. Nondimeno, è la stessa Nothomb che nello scrivere il libro utilizza tutti quegli elementi di “pornografia” (violenza fisica e psicologica, rapporto di dominazione etc.), che anche gli organizzatori del reality sanno essere l’ideale per interessare gli spettatori. Allo stesso modo l’autrice li sfrutta per vendere, giustificata apparentemente dal fatto di essere una critica della società alla quale si rivolge. Così facendo, però, finisce per incarnare a pieno la figura dell’artista che «tutto rifiutando e deplorando prospera e impingua sulle macerie di un mondo che si suppone essere in disfacimento», per prendere in prestito le parole di Eugenio Montale. In sintesi: la critica dello sfacelo morale odierno vende, e anche l’industria culturale sa che «la rinunzia, la protesta, il grido di chi non si rassegna […] sono, in se stessi, una eccellente materia di commercio».

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Dal 2013, Italiani a Parigi.

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