Artemisia Gentileschi in mostra al Musée Jacquemart-André

Tra le protagoniste indiscusse della pittura barocca, Artemisia Gentileschi è spesso il primo nome che viene in mente quando si parla di artiste che hanno segnato la storia dell’arte.
Icona femminile del Barocco, è protagonista della mostra Artemisia. Héroïne de l’Art, attualmente in corso al Musée Jacquemart-André, hôtel particulier oggi trasformato in museo privato dell’Institut de France. Una visita che vale la pena, per l’eleganza del luogo e la bellezza delle opere esposte.
Fino al 3 agosto 2025, avete l’opportunità di scoprire la vita e l’opera di una delle poche donne che, nel XVII secolo, è riuscita ad affermarsi e a vivere della propria arte, in un’epoca in cui il mondo della pittura era riservato agli uomini, offrendo una testimonianza unica di talento e determinazione.
Attraverso una selezione di circa quaranta opere, tra cui capolavori celebri, dipinti recentemente attribuiti e lavori raramente concessi in prestito ad altri musei, la mostra propone un nuovo sguardo sul contributo di Artemisia Gentileschi alla pittura del Seicento, sottolineandone il ruolo centrale nella storia dell’arte.
L’esposizione si articola in otto sezioni, nelle quali il racconto della sua storia personale e l’analisi delle sue opere ci aiutano a capire meglio questo personaggio straordinario del panorama artistico del XVII secolo.
Nella sezione Artemisia et son temps (Artemisia e i suoi tempi), ad esempio, l’esposizione mostra opere di altri artisti, offrendo un’interessante prospettiva su come Artemisia Gentileschi fosse vista dai suoi colleghi contemporanei. Negli anni Venti del Seicento, durante il suo soggiorno a Roma, Artemisia entra in contatto con l’ambiente caravaggesco, frequentando pittori di varia provenienza. Tra questi Leonaert Bramer che, nel 1620, realizza una serie di ritratti dei suoi colleghi e amici, in cui figura anche Artemisia, raffigurata con abiti maschili e baffi : una chiara allusione alla sua condizione fuori dagli schemi di artista e di donna indipendente.
Un’interpretazione personale della mostra, ispirata al mio lavoro di grafica e alla passione per la composizione degli elementi visivi, mi ha portato a riflettere su un tema che attraversa quasi tutte le sale dell’esposizione: il modo in cui Artemisia Gentileschi firma le sue opere. Un gesto che va oltre il semplice atto di apporre il proprio nome sulla tela, rivelando un aspetto distintivo e affascinante della sua personalità.
Secondo la storica Judith W. Mann, riconosciuta come una delle massime esperte internazionali di Artemisia Gentileschi, questo elemento della sua opera non è stato ancora sufficientemente indagato. Nel suo saggio Identity signs: meanings and methods in Artemisia Gentileschi’s signatures, conferma che, sebbene Artemisia abbia firmato solo una ventina di quadri tra le circa 80 tele attualmente conosciute, il suo modo di firmare rimane tra i più innovativi della sua epoca e non solo. Lo studio delle sue firme ha contribuito a far crescere l’interesse per l’argomento, poiché – come osserva Judith W. Mann – questa pratica mette in luce il potere che le firme potevano avere in quel periodo: arricchire il significato dei soggetti raffigurati, accrescere il piacere estetico dei committenti colti e influenzare la reputazione degli artisti, migliorandone così le opportunità professionali.
Artemisia trasforma l’atto di firmare le proprie opere in un’espressione delle sue capacità compositive: scolpita nella pietra, nascosta tra le pagine di un libro o intagliata nel legno, la sua firma è parte integrante dell’immagine e non un elemento sovrapposto al quadro, come se l’artista non fosse solo creatrice, ma parte dell’opera stessa. Il modo in cui si firma, poi, cambia nel tempo come una sorta di marchio personale che evolve insieme all’artista.
Susanna e i vecchioni, 1610
Una delle prime firme è sul quadro “Susanna e i vecchioni”, del 1610, l’unica opera della mostra che non è ammesso fotografare.
La firma, poco visibile ad occhio nudo, si trova nella parte sinistra del basamento della fontana di pietra, parzialmente coperta dall’ombra della gamba destra di Susanna, e recita ”Artemisia Lomi, figlia di Orazio Gentileschi”. Il nome esteso del padre era Orazio Lomi Gentileschi, dove il primo è il cognome paterno e il secondo quello materno. L’opera, oggi conservata nel castello Weissenstein del Graf von Schönborn a Pommersfelden, in Baviera, è realizzata sotto la supervisione di Orazio Gentileschi. Il modo in cui Artemisia firmava le sue opere in quel periodo riflette il forte legame artistico con il padre, caratteristico degli inizi della sua carriera.
Giaele e Sisara, 1620

Nel dipinto, le due figure principali – le uniche illuminate in contrasto con lo sfondo cupo – sono l’eroina biblica Giaele e il generale canaanita Sisara. Dal fondale buio, emerge discretamente un elemento architettonico: un pilastro in penombra, sul quale è scolpita la firma dell’autrice e la data dell’opera: “ARTEMITIA.LOMI / FACIBAT / M.D.CXX” (Artemisia Lomi fece, 1620). Il fatto che in questo periodo Artemisia si firmasse con il cognome Lomi potrebbe suggerire un tentativo di distacco dalla figura del padre e di affermazione della propria indipendenza artistica.
S. Maria Maddalena, 1620
Artemisia Gentileschi raffigura Maria Maddalena, avvolta in un abito di seta gialla, mentre allontana da sé lo specchio, simbolo di vanità. Su di esso sono incise, in caratteri dorati, le parole Optimam partem elegit (“ha scelto la parte migliore”, cioè la virtù). Con la stessa scrittura dorata, l’artista inserisce la sua firma sullo schienale in legno della sedia su cui siede la santa. A differenza di altre opere, dove la firma è più discreta, Artemisia sceglie in questo caso un contrasto deciso tra l’oro e il legno scuro, arricchendo le lettere con eleganti riccioli e volute, tipiche della calligrafia barocca, e firmandosi semplicemente “Artimisia Lomi”.
Clio musa di storia, 1632

Nel dipinto, la pittrice inserisce la propria firma tra le pagine di un libro aperto, simbolo della trasmissione della storia e spesso associato a Tucidide. In questa opera, l’artista si firma semplicemente con il proprio nome, Artemisia, accanto al quale si intravede la scritta “Rosiers”.
Secondo la studiosa Mary Garrard, questo nome si riferisce ad Antoine de Rosières II, legato a Carlo di Lorena, duca di Guisa, e possibile committente dell’opera.
Un’altra teoria, proposta da Raymond Ward Bissell, collega invece il nome a François de Rosières, storico della casata di Lorena, noto per aver fabbricato documenti falsi per rivendicare una discendenza da Carlo Magno con l’intento di consolidare la sua posizione nella storia.
Le diverse interpretazioni della firma nel dipinto Clio sottolineano la complessità dell’opera e l’importanza di inquadrare correttamente le informazioni storiche e iconografiche. Sebbene non ci sia una risposta definitiva, le teorie avanzate offrono spunti preziosi per approfondire il rapporto tra Artemisia Gentileschi e i suoi committenti.
Autoritratto come Allegoria della Pittura, 1638
In “Autoritratto come Allegoria della Pittura”, del 1638, la firma è discretamente inserita nella parte bassa del quadro, sotto la manica della pittrice, ed abbreviata nelle iniziali “A.G.F.”, ovvero Artemisia Gentileschi Fecit (Fatto da Artemisia Gentileschi). Le tre lettere dell’acronimo, intagliate nel legno,sono sufficienti a identificarla e sembrano attestare la posizione ormai consolidata dell’artista nel panorama artistico del suo tempo.
Avete tempo fino al 3 agosto per scoprire queste e altre opere di una delle artiste più iconiche della storia dell’arte. E se il tema delle firme vi affascina, provate a cercare tra le sale del Musée Jacquemart-André altri esempi in cui Artemisia Gentileschi ha lasciato il suo originale segno attraverso i secoli.
Un piccolo consiglio: tenete d’occhio le lame.