Calais-Ramacca, percorso a ritroso sulla rotta dei migranti

Calais_migrants
Foto: © Nathalie Bardou

Nel quadro di un progetto artistico del quale faccio parte, Repentir/Pentimento, mi sono confrontata negli ultimi mesi con la situazione dei migranti e l’accoglienza che viene loro riservata in Francia e in Italia, più precisamente in alcuni comuni della Sicilia e a Calais, per molti prima e ultima tappa eurocontinentali di un viaggio infinito e pericolosissimo.

Il percorso noi l’abbiamo fatto al contrario, cominciando dalla città del Nord della Francia dalla quale in moltissimi sperano di poter raggiungere l’agognata Inghilterra, ciascuno con le proprie ragioni, vere o illusorie che siano: la conoscenza della lingua, la possibilità di trovare facilmente lavoro, la presenza sul posto di amici o parenti, l’accoglienza riservata ai richiedenti asilo, presi in carico dallo stato dal momento della domanda, e la durata dello statuto di rifugiato, cinque anni rinnovabili in maniera permanente.

Da quando, nel 2002, Nicolas Sarkozy ha deciso la chiusura del centro d’accoglienza di Sangatte, a Calais i migranti stanno per strada, estate e inverno. Soltanto per pochissime donne e bambini è prevista l’accoglienza in alcune strutture della città, gli altri sono accampati nella jungle o squattano dove possono. Le associazioni riescono eroicamente a offrire loro un pasto al giorno. Una volta c’erano le docce della Croce Rossa, ma dei vandali le hanno bruciate qualche mese fa. Da qualche settimana è stato inaugurato il nuovo centro Jules Ferry, ma è aperto soltanto di giorno e non risolve il problema. Sono oltre duemila le persone che a Calais affrontano condizioni di vita scandalose a costo di tentare, ogni notte, di raggiungere l’Inghilterra, nascondendosi nei tir, nelle navi e quant’altro. Vengono da Eritrea, Sudan, Afghanistan, Siria e molti altri paesi, fuggono la guerra, la fame, le persecuzioni. Il governo francese, dal canto suo, oscilla tra due atteggiamenti: fare finta che il problema semplicemente non esista e mettere in piedi un dispositivo di controllo, finanziato in larga parte dall’omologo britannico, per impedire ai migranti di oltrepassare la frontiera. Da qui la recente costruzione di un muro al porto di Calais e l’azione repressiva dei CRS, che non esitano a picchiare, arrestare e deportare nei CRA di città situate anche a centinaia di chilometri, distruggere ogni tipo di costruzione semi-stabile (chiese, moschee o scuole costruite con mezzi di fortuna nelle varie jungle). Histoire de faire comprendre à ces gens qu’ils ne sont pas les bienvenus.

Molti abitanti di Calais danno prova di grande solidarietà collaborando benevolmente con le varie associazioni di sostegno ai migranti, che portano avanti un lavoro difficilissimo con scarso aiuto da parte delle istituzioni. Altri sono esasperati dalla situazione, perché è vero che la presenza dei migranti così come è gestita (o meglio, non gestita) è fonte di problemi. La cosa assurda è che nemmeno i migranti stessi vorrebbero intrattenersi a Calais, ci restano soltanto per cercare di attraversare la Manica e raggiungere il Regno Unito, ma farlo diventa sempre più difficile. Se a ciò si aggiunge la particolare congiuntura geopolitica attuale, va da sé che il numero di migranti installati loro malgrado in città non fa che aumentare.

Tra le persone incontrate a Calais, molti, tra quelli che prima di arrivare nel Nord della Francia sono passati dall’Italia, la ricordano con simpatia, ne parlano come di un posto accogliente. Credo non si riferiscano alla situazione nei CDA o nei CARA, ma in effetti, come ho potuto in seguito constatare in prima persona durante una breve tappa in Sicilia, per la precisione nel piccolo comune di Ramacca, in provincia di Catania, il confronto con Calais è imbarazzante. Nondimeno è opportuno fare i dovuti distinguo: lo Sprar (Servizio di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) di Ramacca è un centro di “seconda accoglienza” per persone che hanno già fatto domanda di asilo. Sono una quarantina in tutto, alloggiati in case in affitto e inseriti in un programma di integrazione della durata di sei mesi che prevede un corso di italiano, stage in aziende locali ed eventuali altre attività. Insomma, un dispositivo meraviglioso, ma (e fa male dirlo) pressoché inutile. Tutto quello che i rifugiati vogliono è lavorare, e in Italia, noi espatriati lo sappiamo bene, lavoro ce n’è poco. Ironia del sistema, coloro che hanno fatto domanda di asilo in Italia non possono legalmente spostarsi in altri paesi dell’Unione Europea.

Eh già, lo dice il Regolamento di Dublino II: i migranti sono obbligati a restare nel primo paese europeo in cui hanno registrato le loro impronte digitali. In Regno Unito, il fatto che un richiedente asilo abbia attraversato altri stati prima di arrivare su suolo britannico è motivo di rifiuto dello statuto di rifugiato. Che poi me lo devono spiegare come deve fare uno dal Medio Oriente o dall’Africa ad arrivare in Gran Bretagna senza passare per l’Europa continentale… Eppure tant’è. Come per tante altre questioni, una vera politica europea sulla migrazione non esiste, gli stati giocano a rimbalzarsi il problema o a non affrontarlo per niente, con il risultato che il carico più grosso rimane sulle spalle di Italia e Grecia, i principali paesi di ingresso nell’Unione. Perché Schengen e la libera circolazione vanno bene solo quando fanno comodo e, intanto, con il passaggio dall’operazione Mare Nostrum al programma Triton, l’Unione europea ha ulteriormente ridotto i fondi e i mezzi destinati al salvataggio dei migranti in Mediterraneo. Davvero un’ottima idea alla luce degli oltre 3.000 morti dello scorso anno…

Viene da chiedersi quando l’Europa deciderà di prendere in mano la situazione, quando la Francia la smetterà di fare finta di niente intascandosi i soldi della Gran Bretagna, che pasce inaccessibile al di là della Manica, a soprattutto quando ci ricorderemo finalmente che i diritti umani sono universali e non un privilegio di alcuni.

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Dal 2013, Italiani a Parigi.

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