C’è poco da fare, di primo acchito Parigi è una città inospitale. Lo dicono tutti. Il turista lambda percepisce il parigino medio come un essere umano che passa le sue giornate a camminare a velocità sostenuta nei corridoi della metropolitana evitando accuratamente di incrociare sguardi altrui. Nell’immaginario collettivo il negoziante e il cameriere parigini sono individui cattivi il cui integralismo linguistuico impedisce loro di articolare suoni in idiomi diversi dal francese. Chi vive qui ricorda con angoscia i primi tempi in cui, senzatetto, si arrabattava tra un tugurio e il divano di un amico alla ricerca di una casa rispettabile. Penso con tenerezza ai turisti giapponesi che vivono talmente male questo sentimento di delusione e disincanto per lo scarto tra la città come l’avevano immaginata e come appare nella realtà che gli hanno addirittura attribuito un nome, la Sindrome di Parigi, un disturbo psicologico con tanto di numero verde.
Eppure dopo un po’ ci si abitua, si impara a conoscerla, ad avere pazienza, la si perdona, come in una storia d’amore. Ci si rende conto che se Parigi non corrisponde all’immagine edulcorata che ci eravamo fatti guardando Il favoloso mondo di Amélie o Midnight in Paris, ci sono altre cose di lei che ci affascinano e ce la rendono infine così autenticamente bella.
Ci ritroviamo anche noi a sbuffare dietro la coppietta che cammina lentamente. Ci abbiamo fatto l’abitudine all’idea di dover fare la coda per andare a vedere una mostra, pagare la spesa, comprare un biglietto per il cinema. Non ci rimaniamo nemmeno più male quando i buttafuori non ci fanno entrare e abbiamo smesso di insistere per conoscerne le ragioni.
Ma c’è una cosa alla quale non riusciremo mai ad abituarci: il tempo. Il nostro corpo e la nostra psiche forgiati in 20, 25 anni di clima mediterraneo non sono in grado di accettare i capricci parigini di un inverno troppo rigido e di un’estate che non arriva mai. E così, come narrano le leggende tramandate di italiano in italiano, ogni anno si riproduce un fenomeno piuttosto straordinario, una sorta di estate di San Martino all’incontrario. Una giornata, una settimana o addirittura una quindicina di giorni in cui, al limitare della primavera, sembra di stare in pieno agosto: maniche corte, occhiali da sole, parco, quai de Seine, canale, picnic, cambio dell’armadio.
Sì, cambio dell’armadio, perché noi umani mediterranei, formattati con uno schema delle stagioni del tipo inverno-primavera-estate-autunno, non siamo in grado di concepire l’illusione di questa estate fuori tempo, di questo caldo che se ne andrà all’improvviso così come è arrivato. Dopo una domenica trascorsa al Parc de la Villette a giocare a pallone al sole, o (e ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale) seduti per terra in place d’Aligre a mangiare stracchino e giocare a Uno, ci rimaniamo male quando il lunedì fa freddo manco fosse novembre inoltrato. La prendiamo sul personale. E ancora dopo anni, ci crediamo ancora, come se fosse possibile che la primavera è iniziata per davvero…