Appena uscito nelle sale francesi, Bienvenue au Gondwana racconta la storia di un giovane avvocato francese, Julien Franchon, catapultato in Africa con la missione di sorvegliare il buon andamento delle elezioni in un immaginario paese governato in realtà da una dittatura. Il suo compito è quello di spalleggiare Monsieur Delaville nella direzione di una “delegazione internazionale” composta da una manciata di personaggi provenienti da diversi paesi: Stati Uniti, Germania, Svizzera… e Italia. Dalla r così ben rullata e tutti gli accenti al posto giusto con cui l’addetta stampa Anita Moreno si presenta al presidente gondwanese si capisce subito che il personaggio è interpretato da un’italiana verace. L’attrice si chiama Susanna Dimitri ed è una marchigiana trapiantata a Parigi da diversi anni. Non potevamo lasciarcela scappare e le abbiamo chiesto un’intervista.
Siamo in pieno clima preelettorale. La data di uscita di questo film, Bienvenue au Gondwana, una commedia tragicomica sulle elezioni farsa in un paese immaginario dell’Africa, non può essere stata scelta a caso…
Ovviamente è stato fatto apposta, per smuovere le coscienze e dare qualche spunto di riflessione. Secondo me, questo film vuole essere anche un campanello d’allarme, della serie «Quello che è stato fatto agli altri forse sarà fatto anche a te». La dittatura e la perdita della democrazia sono sempre dietro l’angolo se uno non si impegna per difendere la libertà.
So che hai lavorato con i migranti, ti sei molto impegnata al loro fianco e stai portando avanti un progetto teatrale che ha a che fare col tema della migrazione. Potremmo dire che Bienvenue au Gondwana non è arrivato per caso, ma si iscrive in quello stesso percorso, è un po’ il completamento di una riflessione…
Diciamo che questo film rappresenta per me il prolungamento di un percorso avviato e il compimento di un mio sentire. Esprime il mio bisogno di utilizzare l’arte a fini civici, educativi, di mettere il mio potenziale artistico al servizio di una causa. Perciò questo ruolo mi è sembrato da subito molto interessante: credo che sia molto importante parlare della situazione africana, e in particolare della giovinezza in Africa, del perché spesso i giovani decidano di andarsene. Sono anche molto orgogliosa di aver potuto affiancare il mio impegno personale a quello di Mamane [il regista del film, ndr], un umorista nigeriano che da anni si esprime attraverso il one man show, il teatro, la radio, producendosi in una satira politica interamente dedicata all’attualità africana e mondiale. Insomma, prendere parte alla battaglia di Mamane per me ha avuto un senso profondo, quello di unire le forze per un messaggio.
Vorrei parlare un po’ di te: questo è il tuo primo vero ruolo cinematografico. Come l’hai vissuta?
Ovviamente tanta paura prima di cominciare il tournage, anche perché non giravamo in Francia ma in Africa. Per me sono state tante prime volte insieme: primo film, grandi attori che non conoscevo, primo viaggio in Africa. Insomma tante cose che sono confluite nello stesso epicentro.
Però poi è andato tutto bene, no?
Sì, è andato benissimo. Anche se l’Africa, nonostante tutti i suoi aspetti molto belli, è veramente un posto molto difficile da vivere. Per noi è stato anche piuttosto faticoso, perché il film è stato girato in Costa d’Avorio subito dopo gli attentati [del 13 marzo 2016, ndr], per cui c’è stata anche un po’ di paura. Dovevamo essere sempre accompagnati da una persona di fiducia o comunque muoverci in gruppo, i nostri alloggi erano circondati, ci era sconsigliato allontanarci da soli dalla casa. Eravamo veramente come la delegazione internazionale che si vede nel film.
Che effetto fa vedersi sul grande schermo?
Fa schifo! (ride) No, scherzo. È imbarazzantissimo rivedersi, una vergogna da sotterrarsi. Al primo frame che ho visto ho avuto un sobbalzo, ho detto «Nooooooo». E poi alla prima proiezione del film ti accorgi di tutti i riflessi dell’acting, i flussi, di tutti i problemini della recitazione e anche di tutte le possibilità che hai schivato. Poi più ti vedi più ti accetti. Ti lasci portare dal film e il tutto si sposa molto più tranquillamente.
Tu sei un’attrice, ma anche un’italiana in Francia. Qual è stato il tuo percorso? Come mai sei finita qui?
Ho studiato a Roma per una decina d’anni e già allora vedevo che in Italia era tutto difficile, e non solo per chi cominciava. Avevo l’impressione che anche chi era arrivato a un buon punto della propria carriera fosse infelice, non realizzato, non cresciuto. Questo mi ha fatto riflettere, mi sono detta: «Ma perché in questo paese la gente non può evolvere normalmente, diventare adulta, sposarsi, avere dei figli, fare un lavoro come l’artista in tutta tranquillità e non invece ritrovarsi a 45 anni a “fare il giovane” nei bar?». Questa cosa mi ha fatto paura, vedevo veramente troppa salita. I miei studi alla scuola «Jacques LeCoq» e l’amore per la cultura e il teatro francesi mi hanno dato la spinta finale. Mi sono detta: «Finché sono giovane, vai, parto». Poi è stato un percorso lungo, la famosa gavetta l’ho fatta tutta. E ancora sono in gavetta! Nel lavoro ci sono per fortuna delle soddisfazioni, delle tappe che ti danno delle conferme e che ti spingono a continuare, ma non ci si può mai considerare arrivati. Stando qua ho avuto tante soddisfazioni, ma più che altro ho avuto la possibilità di educarmi a un’altra maniera di pensare, di crescere, di intendere il mio lavoro e i miei diritti in quanto lavoratrice, cittadina ed europea. Questo mi ha dato la forza di impegnarmi per difendere quei diritti e mi ha fatto capire che c’era un’alternativa, che non dovevo adattarmi per forza a un sistema confuso, che non ti mette in valore, che non ti dà possibilità di crescere.
Ci sono moltissimi aspiranti attori che dall’Italia vengono qua in Francia in cerca di fortuna. Tu che sei qua da diversi anni e che un po’ di esperienza ce l’hai, ti sentiresti di dare loro qualche consiglio?
Parlando molto sinceramente, per me è stato un sacrificio andarmene. Poi è stato anche bello, però è stato un vero sacrificio. In qualche modo ho pagato tutto quello che sto riscuotendo: ho fatto anche tanti lavori che non mi piacevano, compleanni per i bambini, ho accettato missioni poco gratificanti. Ho fatto veramente un percorso per capire come funziona la dinamica sociale qua, come farmi accettare, come parlare, come ragionare. Insomma non posso dare un vero consiglio, il consiglio è l’esperienza: non abbiate paura di fare, lanciatevi! A un giovane attore direi: viaggia, prova altre cose, apri la mente. E poi decidi in che posto vuoi stare.
Pensi che avresti potuto fare lo stesso percorso se fossi rimasta in Italia?
Me lo chiedo, però penso che sia importante saper mettere in valore le proprie caratteristiche e io in Italia sono la “tipica italiana”. Quando ero là mi dicevo: «Ma io qua sono una come tante». Di belle ragazze ce ne sono a bizzeffe, non sono io a fare la differenza. Allo stesso tempo sapevo di avere un carattere, una personalità, una forza. Però credo che in Italia questo conti ben poco, contano di più altre cose. Invece sono convinta che in Francia il temperamento, il carisma latino, la personalità di un artista e quello che ha da dire contino ancora.
Vuoi dire qualcosa ai nostri lettori e alle nostre lettrici?
Sì, andate a vedere Bienvenue au Gondwana perché è un film che serve a tutti. E seguitene l’esempio: sposare una causa, impegnarsi in qualcosa nel sociale, è una cosa che dobbiamo alla società.