Prologo
Supponiamo che spinti da una qualsivoglia ragione abbiate deciso di venire a vivere a Parigi. Appena arrivati vi installate in un ostello, in un foyer o dal solito cugino di terzo grado che vi ha preceduti nella capitale francese. La prima urgenza (perché di urgenza si tratta) è quella di trovare una casa, una stanza, un letto, una brandina o un materasso per terra su cui dormire. Cerca cerca cerca, continuate a imbattervi in prezzi improponibili, metrature imbarazzanti (spesso nello spazio dello stesso annuncio), locatori esosi, coinquilini sospetti e tutta l’infinita serie dei casi umani che si incontrano sempre nel passaggio rituale alla pariginità costituito dalla prova del fuoco della “ricerca casa”.
Supponiamo che dopo un po’ abbiate questa luminosa idea: “Poffarbacco! (siete pur sempre dei giovani intellettuali appena sbarcati a Parigi, ci tenete a una certa distinzione, almeno nel linguaggio ndr) Ma come ho fatto a non pensarci prima! Se Parigi è troppo costosa, non mi resta che andare a vivere in periferia!”
L’idea, lo ammettiamo, ha il suo fascino: affitti abbordabili, appartamenti più grandi di una scatola da scarpe, quella simpatica aria di paesello… “E poi, in quindici minuti di RER sono a Chatelet… Meglio di così!”
Atto primo
E così vi ritrovate nella vostra simpatica casetta (oddio, non ci allarghiamo, nel vostro simpatico appartamento) “alle porte di Parigi”, come dicono i mediatori immobiliari. Prendiamo l’esempio che vi siate trovati il vostro nido in uno dei ridenti comuni della banlieue sud… Che ne so Cachan (ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale). Inizialmente non fate che vantarvi della qualità della vita nel vostro nuovo comune con tutti gli amici “inurbati”: “Guarda, vivere in banlieue è la svolta! C’è il mercato il sabato mattina, per la frutta e la verdura, e poi voglio dire… In un quarto d’ora di RER sono in centro! È vero che non passa di frequente come la metro, però è una grande comodità!”
Quello che è interessante in questi casi è che mentre lo dite ci credete davvero. Ci credete talmente tanto che iniziate a impostare la vostra vita come se fosse vero. A chiunque vi chieda: “ma quanto ci metti ad andare a *** (dove *** va sostituito con qualunque nome di stazione metro parigina)?” voi rispondete, sicuri di voi come Humphrey Bogart in Casablanca: “Mah, una ventina di minuti, massimo venticinque!” La mattina, per entrare in ufficio alle nove e mezza, vi ostinate ad arrivare alla stazione alle nove, freschi e riposati come rose.
Lentamente, però, a forza di accumulare ritardi, ore perse con la testa tra le mani a Denfert Rocherau, nonché incontri improbabili in Noctilien con aspiranti terroristi, sedicenti poeti/pittori/giocolieri e i soliti maniaci (identici in tutte le città del mondo) inizia a farsi strada in voi un “terribile sospetto” (come si legge nei romanzi gialli): quella dei quindici minuti per arrivare a Chatelet è una menzogna bella e buona. Altrimenti detta una grandissima presa per il culo. Questo sospetto inizia a rodere la vostra vita come un tarlo, fino a quando un giorno la benda dagli occhi cade e vi trovate di fronte il nome del vostro nuovo nemico, più invincibile di Joker, più cattivo di Scar nel Re Leone, e più inaccessibile del Grande Fratello di Orwelliana memoria. La RER B.
Atto secondo
Scena: primo giorno di lavoro. Di un lavoro che vi piace, che non vedete l’ora di cominciare e nel quale (dettaglio di fondamentale importanza) non volete fare brutte figure. Insomma, il tipo di giornata in cui per arrivare alle nove e mezza uscite di casa alle otto “perché non si sa mai”. Ma la RER B lo sa. Ha annusato il vostro desiderio di essere in orario e non vede l’ora di mettersi di traverso al vostro tentativo di puntualità. Arrivate alla stazione e vi accorgete che il pannello che indica i prossimi treni non annuncia nessun orario. Le banchine sono strapiene come dovevano essere strapiene le scialuppe del Titanic quando è affondato. E anche le espressioni di disperazione sui visi dei passeggeri non devono essere molto diverse.
Passano i minuti a decine. Finalmente un treno si avvicina, vedi da lontano i suoi occhi cattivi e il suo corpo da brucomela mentre esce dalla curve a tutta velocità. Troppa velocità. Infatti è un train sans arret. Speranza vana, ricomincia l’attesa. Ancora grappoli di minuti persi. Finalmente un altro treno, questo si ferma. Quando si aprono le porte la pressione interna fa saltare fuori due avvocati in giacca e cravatta come tappi di spumante a capodanno. Nonostante l’evidente impossibilità fisica di poter entrare qualcuno fa un tentativo d’irruzione nel carro bestiame treno, respinto dal muro di pance, culi e poppe che fodera la porta. Il treno richiude (a fatica) le sue porte e riparte. La scena si ripete per altre 4 volte, ogni volta con una percentuale miserrima di fortunati che riescono a entrare nella scatola di sardine su ruote. Finalmente è il vostro turno. Il treno parte dalla stazione alle 8:33.
Mentre cercate di appoggiare i piedi per terra, dopo le prime due fermate fatte incastrata tra due nerboruti passeggeri vi squilla il telefono. Logica vorrebbe che non rispondeste: il vostro spazio vitale è – 20 cm cubi (lo spazio vitale è in negativo perché avete dovuto pure tirare in dentro la pancia per far spazio al gomito della tizia davanti a voi), non esiste nessuna possibilità che riusciate a prendere il telefono dalla borsa e portarlo all’orecchio ma… è il vostro primo giorno di lavoro! Dovete rispondere! Contorcendovi come un’anguilla riuscite a prendere il telefono dalla borsa, ma il caldo vi ha fatto sudare le mani e il cellulare scivola per terra. Perduto per sempre, potete dire addio al vostro nuovo smartphone che state ancora pagando (anzi, che avreste pagato col vostro nuovo stipendio). Intanto siete arrivati a Denfert. Si aprono le porte e una mandria di bufali inferociti dal caldo e dal ritardo si precipitano verso la porta, contrastati solo da una massa di uguale forza e determinazione che vuole entrare. Momenti di tensione che pare di essere al derby dell’Olimpico l’ultima di campionato: le leggi della fisica però sono a vantaggio di chi vuole uscire. Due ore di sudore e imprecazioni hanno prodotto una pressione interna irresistibile. I bufali che devono uscire vincono, travolgendoti sul loro passaggio. La cosa positiva è che nel frattempo avete ritrovato il vostro telefono, anche lui travolto dalla folla. Il treno riparte, poco più vuoto di prima. Port Royal, Luxembourg, Saint Michel… Siete quasi arrivati quando il treno si ferma, tutte le luci spente. La voce del conducente vi raggiunge mentre cercate di respirare di diaframma come vi hanno insegnato al corso di meditazione: “en raison d’un accident voyageur/colis suspect/accident technique, le trafic est interrompu. Nous nous excusons pour la gêne occasionnée.” Ovviamente loro si stanno scusando per il disturbo procurato («occasionnée»). Solo che voi, nella vostra disperazione, capite “disturbo occasionale”: è la fine. Urlando come una scimmia iniziate a maledire il Paese che vi ha accolti, il nuovo lavoro, la RATP, Parigi e la Banlieue, in un crescendo di maledizioni che si concludono con un “I trasporti, peggio che qui, solo in Uganda!” in quel momento non provate né pietà per il suicida, né paura per la bomba, né interesse per lo stato delle rotaie. Gli occhi iniettati di sangue, la bava alla bocca e il respiro affannoso, il vostro solo desiderio è non essere mai saliti su quel cazzo di treno. Ormai ridotti a uno straccio, i vestiti sgualciti, puzzolenti di sudore, vostro e non solo, arrivate a Chatelet. Sono le nove e un quarto. Le correnti d’aria gelida delle gallerie vi raggiungono mentre ancora grondate, provocandovi un dolorosissimo colpo della strega.
Appena arrivate nel nuovo ufficio (con un quarto d’ora di ritardo, solo per cambiare linea a Chatelet ci vuole un mese) il vostro responsabile vi guarda, intenzionato a dirvi quanto sia importante la puntualità nel loro ufficio. Vedendo il vostro volto, però, la sua espressione cambia: “Ma voi venite con la RER B?” il vostro sguardo è una risposta più che eloquente. “Seguitemi pure, vi mostro il vostro ufficio!”
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