Italiani che fanno cose è una nuova rubrica di Parigi Grossomodo, nella quale vi facciamo incontrare delle e degli italiani in Francia attraverso il loro percorso. Chef, imprenditori, artisti, scrittori… con ognuno di loro approfondiremo l’itinerario che li ha portati in Francia e il loro rapporto col loro nuovo paese di residenza, attraverso un’intervista senza filtri, nella quale prendiamo il tempo di conoscerli veramente. Perché siamo convinte che se si prende il tempo di approfondire qualunque argomento è interessante e ognuno di noi ha qualcosa da insegnare!
Italiani che fanno cose è una rubrica per conoscerli e conoscerci, noi, italiani in Francia, al di là dei cliché e delle statistiche, al di là dei diversi percorsi che ci hanno portati qui.
Samanta Vergati, per noi di Parigi Grossomodo, è un’amica di lunga data. L’abbiamo conosciuta nel lontano 2015, quando era all’inizio della splendida avventura di Altrimenti, l’associazione che ha creato e che da allora non ha smesso di crescere fino a diventare un attore importante e riconosciuto dell’anti-spreco a Parigi.
Da allora abbiamo seguito con ammirazione e interesse il suo percorso ed è per noi un vero piacere poter pubblicare questa sua intervista, realizzata un pomeriggio di qualche settimana fa. Una chiacchierata di quasi un’ora a cuore aperto in cui Samanta ci ha parlato del percorso che l’ha portata da Napoli fino a Parigi, passando da Siena e dal Messico, ma anche della sua visione del mondo e dei valori che ha cercato di condividere attraverso Altrimenti.
Un’intervista da degustare lentamente, come un buon piatto di paste fatte in casa!
PG: Ciao Samanta, come ben sai, le nostre interviste iniziano tutte con la stessa richiesta: come ti presenteresti ai nostri lettori? Chi sei e cosa fai?
S: Guarda, mi sembra già una domanda difficile! Da dove iniziare? Mi chiamo Samanta Vergati, sono italiana e vivo a Parigi da ormai 13 anni… Chi sono? Per iniziare posso dire che sono un’economista dello sviluppo sostenibile e dell’ambiente, specializzata in politiche alimentari. Dopo aver lavorato in diverse istituzioni, ho deciso di lavorare alla creazione e in seguito allo sviluppo di un progetto “mio” che in realtà è un progetto di interesse generale, di utilità pubblica, che si chiama Altrimenti.
PG: Noi di Parigi Grossomodo conosciamo Altrimenti fin dalla sua nascita, ma ti va di spiegare di cosa si tratta?
S: Partiamo dalle basi: Altrimenti, per cominciare, è un’association loi 1901 [si tratta della legge che regola lo statuto associativo in Francia, che si applica a tutte le associazioni che non hanno scopo di lucro ndr]. La missione di Altrimenti è di sensibilizzare all’alimentazione sostenibile, attraverso un filo conduttore che è anche uno strumento: l’anti-spreco. Infine, da tre anni, Altrimenti ha anche uno statuto particolare, quello di Ateliers et Chantiers d’Insertion, che ci permette di integrare al progetto delle persone in difficoltà, soprattutto delle donne, in quanto lavoratrici, per formarle e renderle autonome economicamente, competenti e legittime in alcuni ambiti professionali.
PG: Nel concreto come opera Altrimenti?
S: Come dicevo, la missione di Altrimenti è di sensibilizzare su cosa significa mangiare sostenibile, sull’impatto della nostra alimentazione sull’ambiente sulla salute, sull’ecosistema, ma anche sul gusto, perché mangiare è anche un piacere. Per farlo, organizziamo dei laboratori culinari rivolti a diversi pubblici, durante i quali i partecipanti imparano una serie di gesti, di riflessi, di ricette anti-spreco.
Ma non è tutto qui, Altrimenti è anche una risposta concreta al problema del mancato accesso per tutti ad un’alimentazione sana, di qualità e sostenibile. La domanda che mi sono fatta è stata: come andare al di là delle politiche di aiuto alimentare? Queste politiche, in atto da 30/40 anni, rispecchiano un approccio paternalistico che non si basa affatto sull’autonomia dei beneficiari.
Attraverso Altrimenti abbiamo creato dei programmi che sono specifici contro la precarietà alimentare, attraverso dei laboratori, degli atelier rivolti proprio alle persone che si trovano in una situazione di precarietà alimentare, come gli abitanti dei quartieri popolari.
Con questi programmi sulla precarietà alimentare, in realtà, cerchiamo di fare empowerment, proprio attraverso la cucina. Quando dicevo che l’anti-spreco è anche un mezzo intendevo dire proprio questo: il cibo per noi è – certo – un fine perché diamo da mangiare alla gente, ma è anche uno strumento che crea empowerment. C’è tutto un mondo dietro al fatto di partecipare ad un programma, ad un laboratorio culinario, che va al di là dell’aiuto alimentare: c’è il fatto di mangiare qualcosa di sano, che fa bene alla salute, ma anche di incontrare gli altri, di creare dei legami… insomma, una serie di esternalità positive come le chiamiamo noi economisti.
PG: E poi c’è l’aspetto ecologico…
S: Esattamente. L’anti-spreco è una formidabile passerella per divulgare, diffondere, democratizzare il concetto di mangiare bene, ossia in maniera economica ed ecologica: e attenzione, spesso queste due variabili si incrociano, mi tiene a cuore anche andare contro il pregiudizio che mangiare in modo sostenibile sia costoso. Oggi mangiare è un atto politico: attraverso il cibo possiamo agire direttamente o indirettamente su tantissimi fattori che influenzano la nostra società, la salute, la convivialità, l’ambiente, la sostenibilità… e non è un caso che l’Onu abbia recentemente affermato che l’anti-spreco è uno degli strumenti più efficaci contro il riscaldamento climatico: ricordiamoci che l’alimentazione è il terzo settore per emissione di gas a effetto serra.
Infine, c’è anche l’aspetto economico: Altrimenti è anche un progetto di economia circolare. L’associazione produce anche delle conserve a partire da invenduti, e a produrle sono le donne che integrano il progetto grazie al meccanismo dello Chantier d’insertion. In pratica partiamo da un rifiuto e lo rimettiamo nel circuito economico, dandogli un valore aggiunto, creando lavoro, e – grazie alla formazione che diamo a questa persone – creiamo emancipazione.
PG: Parliamo un po’ del tuo percorso. Sei a Parigi da tredici anni, com’è che sei arrivata qua?
S: Conosco molte persone che dicono di essere a Parigi “un po’ per caso” … Per me più che un caso è stata una scelta, dovuta a due variabili che si sono incrociate, una personale e una professionale.
Dopo aver studiato Economia dello Sviluppo all’Università di Siena sono partita un anno in Messico per fare quella che si chiama ricerca-azione: ho fatto indagini sul terreno e analisi socioeconomiche nei quartieri poveri di Città del Messico, e là ho cominciato a lavorare sulla questione dell’accesso alla salute, al cibo e all’educazione attraverso il prisma delle donne. Questo studio socioeconomico che ho potuto fare mi ha spinto a specializzarmi economia dello sviluppo e cooperazione internazionale. Dopo questa specializzazione ho avuto la possibilità di integrare una missione all’OCSE a Parigi, nell’ambito dell’economia dello sviluppo e dell’economia ambientale. Avevo un’altra opzione: quella di partire in missione in Africa per l’Onu, ma la ragione personale – la persona con cui stavo era a Parigi – mi ha spinto a scegliere di venire qui.
Ma prima di questa scelta non avevo nessun legame con Parigi, né linguistico, né culturale.
PG: Come ricordi quel primo periodo in Francia?
S: Duro. Ho vissuto una forma di immigrazione abbastanza sui generis, non parlavo la lingua, non padroneggiavo i codici culturali francesi, il mio lavoro si svolgeva in una struttura internazionale, in lingua inglese, ero in coppia con una persona che non era francese… insomma vivevo Parigi un po’ a distanza. Ricordo che riuscivo a malapena a chiedere una baguette in un forno! Tra l’altro parlo proprio di questo aspetto nel mio podcast! [Samanta scrive e pubblica un podcast in cui affronta tematiche sociali, ecologiche e politiche a partire dalle proprie esperienze: Samanta met les pieds dans le plat, ndr]
Ho vissuto Parigi come una città dura, tra il clima, gli appartamenti minuscoli, il tran-tran della metropoli, le persone che – almeno in apparenza – sono molto chiuse… E per certi versi la vedo ancora così. Per questo il fatto di lanciarmi con un progetto proprio qui è stato un passaggio molto forte per me.
PG: E il fatto di aver creato qui la tua associazione ti ha fatto vedere delle differenze tra la Francia e l’Italia nell’ambito dell’associazionismo?
S: A Parigi penso di aver avuto comunque un riscontro che forse non avrei avuto in Italia. Sono arrivata qui, Samanta Vergati, amica di nessuno, appoggiata da nessuno, senza contatti istituzionali, ma con un’idea, con un progetto e mi hanno ascoltato: le istituzioni, le fondazioni, gli abitanti… Certo, il progetto era solido, era completo, sicuramente c’è una parte di merito mio, ma c’è anche un tessuto sociale, amministrativo e sociale che me l’ha permesso. Sinceramente non so se in Italia avrei avuto lo stesso sostegno.
PG: Quando hai scelto di creare Altrimenti hai comunque preso un grande rischio perché hai abbandonato un posto fisso per buttarti a capofitto da sola nella preparazione di questo progetto. Cosa ti ha spinto a farlo?
S: Sono sempre stata una persona indipendente, autonoma… fondamentalmente una ribelle; quindi, ho bisogno di seguire le mie idee. Dicevo all’inizio che sono una creativa, ho mille idee al secondo e non riesco a fermarmi all’embrione, devo concretizzare. Creare Altrimenti mi è apparso come un’evidenza: avevo veramente bisogno di creare qualcosa che mi corrispondesse in termini di valori, di approccio e di azioni. Ma è vero che è stato un periodo difficile, un vero salto nel vuoto, che però mi ha aiutata ad emanciparmi anche io in quanto donna, in quanto cittadina… e in quanto imprenditrice. All’inizio ho puntato tutto sulla riuscita di questo progetto, nel bene e nel male!
PG: E lo rifaresti oggi?
S: Lo farei di nuovo, ma buttandomi meno a capofitto, forse cercando subito una persona che voglia affiancarmi e prendere un po’ di rischi, perché ancora oggi non ho trovato persone che volevano, come me, abbandonare una sicurezza per prendere un rischio e dire: ok proviamo!
PG: Quale ti sembra essere l’aspetto che caratterizza Altrimenti rispetto, ad esempio, ad altre associazioni che esistono e che fanno anti-spreco?
S: Direi che un aspetto importante è il mio legame personale con la cucina. Cucinare ha sempre fatto parte della mia vita, me lo ha trasmesso mia nonna fin da piccola. Per anni ho dato per scontato che cucinare fosse una competenza comune a tutti, fino a quando non ho capito che non era così, che si trattava di un savoir faire da trasmettere: una serie di gesti, di riflessi, di competenze che per me sono naturali perché mi sono state trasmesse.
Altrimenti valorizza il patrimonio culturale, non recuperiamo semplicemente degli invenduti, fondamentalmente prendiamo delle risorse che non hanno più valore economico perché sarebbero buttate e ridiamo loro valore. Non un mero valore alimentare o nutritivo, ma un valore culturale e anche sociale, perché creiamo un legame attraverso questo atto del cucinare. Ecco qual è, secondo me, la caratteristica principale di Altrimenti.
L’altra peculiarità della nostra associazione è il suo approccio trasversale e completo. Tutti gli aspetti di cui abbiamo parlato prima: la sensibilizzazione di diversi tipi di persone, i programmi contro la precarietà alimentare, l’opportunità per le persone in difficoltà di lavorare e formarsi a dei mestieri qualificati nell’ambito dello Chantier d’insertion… Questa visione a 360 gradi, basata su fondamenta solide in ambito economico, ecologico e sociale, che ho potuto portare anche grazie alla mia formazione accademica, mi sembra sia unica nel contesto locale e nazionale.
PG: Abbiamo parlato tanto di alimentazione, ma non di solo pane vive l’uomo… Quali sono le altre cose che ti nutrono?
S: Allora, sicuramente ci sono diverse forme di cibo per me: per iniziare dal cibo nel senso degli alimenti, in cui credo tantissimo come veicolo, come vettore di mille cose. Ovviamente ci si nutre anche a livello intellettuale, ci si nutre di bellezza, ci si nutre di cultura… Quello che mi piace sottolineare è che il cibo può essere un condensato di tutto questo, nel cibo si può trovare bellezza, piacere, cultura, perché i piatti, gli ingredienti hanno delle storie.
I piatti non sono un’improvvisazione, sono il risultato di un percorso, di un incontro, di una ricerca, di test, di errori… Raccontano storie: il cibo è anche memoria, e infatti mangiamo con la bocca, ma anche con gli occhi e con il cuore!
Penso alla cucina italiana, che è conosciuta e apprezzata nel mondo per la qualità degli ingredienti e per la capacità di associare quegli ingredienti con semplicità. Ma bisogna fare attenzione a non confondere semplice e semplicistico. Non è che un giorno uno si è svegliato e ha detto “oggi faccio la panzanella, oggi faccio la pasta”: ognuno di questi piatti è il risultato di test di creatività. Non so se questa parola l’ho usata, ma la cucina è creatività. E quindi la creatività è pensiero, è apertura, è curiosità.
Per me nutrirsi in maniera semplice vuol dire prendere gli elementi importanti di cui abbiamo bisogno per nutrirci ma andando in profondità, e penso che valga per tutti i tipi di nutrimento.
PG: Se ti chiedessi una grande soddisfazione che ti ha dato Altrimenti?
S: Abbiamo lavorato con persone di estrazioni sociali diversissime, perfino con la principessa della Danimarca, e il fatto che i nostri “rifiuti rivalorizzati” siano apprezzati da lei e dalla sua corte e allo stesso tempo dai sans-abri è già una soddisfazione in sé. Ma c’è un episodio in particolare che mi ha molto toccato. Abbiamo avviato un programma contro la precarietà alimentare in collaborazione con l’associazione Le Petite Frères des Pauvres, una grossa associazione che si occupa – tra le altre cose – di aiuto alimentare ai senzatetto. Normalmente, a seguito degli atelier e dei laboratori, inoltriamo ai beneficiari una scheda con le ricette che abbiamo realizzato… Insomma, qualche giorno dopo un atelier una persona che aveva partecipato mi ha scritto un messaggio ringraziandoci per l’atelier e chiedendo le ricette perché le ha apprezzate molto e desidera replicarle. Stiamo parlando di una donna senza domicilio fisso, che si è presa la briga di farsi prestare un telefono per scrivere un messaggio al numero che si trova sul nostro sito.
Per me questo è il massimo dell’obiettivo di un programma che mira all’emancipazione, all’autonomia delle persone.
PG: Un’ultima domanda: cosa ti auguri per il futuro di Altrimenti?
S: Che Altrimenti possa fare dei bebé, cioè che si possano duplicare. Vorrei che questo modello che è innovativo a livello economico, sociale, ambientale e culturale possa essere riprodotto. Vorrei che questo modello, innovativo a livello economico, sociale, ambientale e culturale, possa essere riprodotto. Questo perché si capisca che si può gestire l’economia in modo diverso, non nell’interesse personale, ma nell’interesse collettivo, rispettando i diritti delle persone e i valori, permettendo di vivere dignitosamente del proprio lavoro, senza abusarne e senza creare sperequazioni sociali, ma promuovendo l’equità e la giustizia sociale.
Per quanto mi riguarda, si tratta anche di onestà intellettuale, di un allineamento tra valori e azioni.
Foto di copertina: Chinh Le Duc su Unsplash